La città sommersa
Correva l’anno 1984 e un gruppo di quattro ragazzi, che frequentavano l’ultimo anno di scuola superiore a Portoferraio, decisero di ritrovarsi un pomeriggio in biblioteca per concludere un compito assegnato loro per la fine del mese, per il quale dovevano ricercare informazioni sulla loro isola e presentarle alla classe. Il gruppo era formato da due ragazze – Amelia e Sabrina –, e due ragazzi – Giulio e Simone –, erano compagni di classe da quando avevano memoria, fratelli cresciuti in famiglie differenti. Dopo sfiancanti ricerche di libri che sembravano non esistere, uno di loro, Simone – un ragazzo dai capelli color cioccolata, il più alto di tutti dai tempi dalla seconda media, che era stato anche l’ultimo degli anni in cui si era impegnato davvero per studiare: amava leggere solo fantasy e fumetti, se le pagine parlavano di qualche guerra o regola particolare del latino, iniziava ad annoiarsi a morte – camminò a passi pesanti per tutta la biblioteca al solo scopo di passare il tempo e, arrivato in fondo al corridoio, incontrò casualmente con lo sguardo una sezione della biblioteca pullulante di numerose storie e leggende. Tornò subito dagli altri, conducendoli allo scaffale d’interesse, e, tutti insieme, iniziarono a cercare delle leggende riguardanti l’isola. Presero uno dei moltissimi libri sistemati ordinatamente sui ripiani e cominciarono a sfogliarlo: era ricco di storie e immagini, rimasero colpiti da una particolare narrazione, che raccontava del tesoro di Ferdinando IV disperso poco più a largo nel mare di Porto Azzurro. Interessati alla storia, decisero di prendere il libro e, una volta usciti dalla biblioteca, di leggerlo e controllarlo più attentamente.
Nei giorni successivi si impegnarono nella lettura, memorizzandone anche le virgole, ma più la storia andava avanti, più sorgevano numerosi dubbi. Finito il testo arrivarono alla conclusione che molte parti importanti erano andate perse o cancellate, ma, essendo ormai spronati dalla curiosità, decisero di chiedere informazioni alle poche persone che secondo loro avrebbero potuto fornire le giuste risposte. La prima con cui decisero di parlare fu il nonno di Sabrina, che aveva cresciuto la nipote raccontandole sempre delle storie riguardanti l’isola.
Grazie alla sua abile professione di pescatore, si era sempre interessato ai segreti riguardanti il mare, comprese le leggende, grazie alle quali riuscì ad aiutare i ragazzi. Mostrò loro un vecchio libro con il quale, da giovane, aveva provato a trovare il tesoro, senza però riuscire nell’impresa. Nei giorni seguenti fu quel nuovo testo il fulcro del loro interesse, tuttavia non giunsero a nessuna conclusione. Ormai scoraggiati e sul punto di abbandonare le ricerche, uno di loro, Giulio, che era sempre stato un ottimo osservatore e un ragazzo molto intelligente, allenato a giocare a scacchi da suo nonno e risolvere enigmi sulle riviste che comprava la madre in edicola, si accorse di un particolare che era sfuggito a tutti: una volta avuti davanti entrambi i libri, saltò all’occhio una certa somiglianza tra le stesure e le due rappresentazioni geografiche delle cartine. Ispirato dalla logica dei film, visto che quell’impresa vi stava somigliando sempre di più, prese i due testi e una tavoletta di vetro, a formare un piccolo tavolo sotto il quale mise una luce e poggiò le due cartine, che, come aveva già intuito, risultarono completarsi a vicenda, sia come rappresentazione di quello che effettivamente stavano cercando, sia come coordinate geografiche incomplete. Ricostruirono su un foglio un veloce schizzo delle due cartine unite e, senza perdere tempo, si diressero verso il punto indicato su di essa. Tuttavia c’era qualcosa che non tornava: le coordinate adesso indicavano una posizione in mezzo al mare, completamente dalla parte opposta rispetto al luogo indicato dalla leggenda trovata in biblioteca. La loro spedizione si sarebbe dovuta tenere non più al largo del porto di Porto Azzurro, bensì poco distante dalla spiaggia di Capo Bianco, nel versante di Portoferraio.
Iniziarono a cercare qualcuno che potesse prestargli una barca e l’attrezzatura da sub per permettergli di immergersi a vedere che cosa effettivamente ci fosse nascosto in quella zona. Grazie a Sabrina riuscirono a farsi prestare la barca di suo nonno, visto che durante l’infanzia era frequente che pescassero insieme e, così, aveva imparato un sacco di nozioni sia sul mare sia su come pilotare una barca, competenze che le erano finalmente tornate utili. Data questa sua passione aveva tra l’altro seguito dei corsi di immersione subacquea e in un po’ di tempo insegnò le regole base per fare sub anche ai suoi amici.
Vi era una domanda a tormentare le menti dei ragazzi: com’era possibile che in un luogo così frequentato da pescatori e navi da carico nessuno di loro si era mai accorto che in quel punto vi erano i resti di un tesoro che si supponeva essere andato perduto? Erano decisi più che mai a trovare una risposta a questo quesito, così nel primo giorno libero si ritrovarono al porto pronti a partire con la barca e cominciare le indagini. Salirono tutti a bordo, Sabrina accese il motore, si mise alla guida e iniziarono a navigare; il mare era limpido e cristallino, di un azzurro quasi verde, nel cielo non c’era neanche una nuvola e il sole splendeva. Dopo aver percorso il breve tragitto, arrivarono al punto prestabilito, si prepararono con gli attrezzi da sub e assai incuriositi si immersero, tutti tranne Amelia che preferì rimanere ad aspettarli sulla barca; lei era una ragazza un po’ timida, riservata, che non si apriva facilmente con le persone, era stato Simone a chiederle di giocare con i suoi amici ai tempi delle elementari, visto che gli dispiaceva che fosse sempre sola. Conoscendosi da tanto, nessuno l’aveva mai costretta a entrare in mare: Amelia ne era sempre stata spaventata.
Gli altri si immersero, sott’acqua era tutto così incantevole, pesci che nuotavano, fondale limpidissimo con i ciottoli bianchi che sembravano gemme, qualche alga qua e là, ma all’apparenza nessuna vista di un antico tesoro. Continuarono a cercare per tutto il pomeriggio, ma niente, cosi, con il vespro a incombere, furono costretti a rientrare scoraggiati per non aver trovato niente, forse avevano sbagliato di nuovo?
Non si diedero comunque per vinti, infatti Amelia li aveva incoraggiati molteplici volte, sentendosi esclusa per la sua fobia di nuotare nell’acqua alta e non potendo seguire i suoi amici, aveva studiato attentamente la cartina, individuando luoghi proficui per la loro ricerca e all’alba del giorno dopo tornarono in mezzo al mare, quando ancora il sole non era sorto del tutto, perlustrarono ogni luogo che non avevano visto il giorno precedente, avventurandosi sempre più a largo, dove il fondale iniziava a diventare di un colore blu intenso. A quel livello del mare la visibilità era diminuita e non era più tutto così chiaro, si intravedevano giusto massi più imponenti e non sembrava esserci niente di interessante, quando ad un certo punto Sabrina, allontanatasi dagli altri, trovò alcuni resti di un edificio in pietra, avevano finalmente scovato la strada giusta?
Si ricongiunse subito con gli altri e portò la notizia della sua importante scoperta, guidando i ragazzi a vedere quei resti. Rimasero tutti stupiti da questo ritrovamento, e, anche se non era ciò che stavano cercando, decisero di proseguire in quella direzione, infatti, continuando a nuotare un altro po’, individuarono una cosa incredibile: si trovavano davanti un enorme cancello arrugginito che in alcuni punti rifletteva ancora la luce del sole, poi tutto intorno molti edifici, palazzi, colonne, case, qualcuna ricoperta di alghe sulle fondamenta e tutte erose dal movimento incessante delle onde. Riconobbero una chiesa, che aveva tre scalini di fronte e un portico sorretto da alcune colonne, sulla porta erano presenti delle scene probabilmente del vangelo e al di sopra un’incisione in latino sbiadita dal tempo; c’era poi un museo d’arte riconoscibile grazie anche alla grande quantità di statue trovate lì vicino, che ritraevano persone che compivano atti di vita quotidiana o animali. Tutto intorno era animato dalla grande presenza di pesci e altre forme di vita, coralli, molluschi, crostacei, avevano fatto di quel posto la loro casa e ciò rendeva la città come se fosse ancora viva e abitata. Erano venuti per cercare un tesoro, tuttavia ciò che trovarono era ben più grande e più importante di un tesoro, era una vera e propria città sommersa. Scattarono molteplici foto con la telecamera subacquea, tuttavia sopraggiunse in quel momento un persistente movimento d’acqua e, voltandosi di scatto, i tre videro una figura affiancarli. Inizialmente la identificarono, servirono numerosi secondi per distinguerla e altrettanti per metabolizzare.
Era Amelia, la stessa che era terrorizzata dal mare, priva di muta o bombole al loro fianco, in sembianze che non erano in alcun modo umanoidi: il corpo, al di sotto dei vestiti gonfiati dalla corrente, appariva squamato e le dita delle mani e dei piedi erano palmate, i capelli sembravano incollati a ciocche, spessi e viscidi come alghe. Le orecchie erano appuntite come le pinne dei pesci e, sotto la mascella, scorsero due paia di branchie.
I ragazzi erano sconvolti, forse stavano sognando, anzi, indubbiamente lo stavano facendo, com’era possibile? Furono tentati di correre via, mentre Amelia faceva loro segno di risalire in superficie. Stare al passo con i movimenti veloci dell’amica risultò complesso, nonostante le pinne e, quando le loro teste uscirono dall’acqua, i tre si tolsero subito maschera e boccaglio, allargando gli occhi quando videro la ragazza perfettamente normale. Il suo viso era tornato ad avere lineamenti umani e la sclera non era più occupata da una spessa pupilla di diversi colori, differentemente, il corpo era ancora squamato.
Sabrina, Giulio e Simone parlarono uno sopra l’altro appena ebbero il fiato per farlo, interrompendosi e sfidandosi a chi urlava più forte dubbi e interrogativi per ottenere risposte. Amelia impiegò dieci minuti per farsi ascoltare, poi parlò. «Quella è casa mia» affermò, «è un luogo segreto e invisibile alla maggior parte degli uomini, dove vivono creature con sembianze come le mie».
Spiegò loro che quella città era celata all’occhio degli abitanti della superficie per ragioni difensive e, per vederla, necessitava che un natio permettesse ciò e lo mostrasse, come Amelia aveva fatto con loro indicandogli luoghi appositi dove cercare.
«E allora, perché sei qui?» le chiese Giulio. Perché non viveva nascosta in quel luogo?
La ragazza sospirò, «Ogni tanto accade che ci siano persone capaci di scorgere la città senza il nostro permesso, dunque alcuni di noi devono per forza mischiarsi con voi uomini e tenervi alla larga. Solo una volta questo sistema ha fallito ed è nato il mito di Atlantide».
«Come mai hai deciso di mostrarci casa tua se è così importante che rimanga segreta?» domandò Simone.
Amelia scrollò le spalle, la porzione che usciva dall’acqua perdeva istantaneamente le squame, apparendo come semplice pelle. «Perché vi voglio bene e mi fido di voi».
L’avevano accolta nel loro gruppo con affetto, facendola sentire amata e Amelia era grata per questo.
Durante l’estate esplorarono il luogo natio di Amelia da cima a fondo, scoprendone tradizioni e familiarizzando con la popolazione, nascosta durante la prima esplorazione fatta, e considerarono tutto ciò il loro più grande segreto.
Giorgia Torre, Giovanni Gigante, Sofia Palmieri, Yan Gritti
Istituto Comprensivo Raffaello Foresi, Portoferraio