La madre
Già esisteva la notte con i suoi fardelli, già esistevano le acque, la carne e il miele e i sogni. Violante nasceva dopo. Le grandi storie nascono sempre per mano di grandi desideri, l’incanto sempre sgorga da una qualche più pura sorgente. Questo racconto prende vita dalla parte più bassa di una piccola isola, abbracciata dalle correnti e dal vento, figlia della dolce Toscana. In un tempo dimenticato, la campagna dominava prepotentemente le vallate di questa terra, spaziava colorata e viva come una bambina. Nei giorni furenti, imponenti mareggiate spargevano sale ovunque, generando il vociare lamentoso dei popolani spazientiti.
L’equinozio di primavera ingoiava la luna e la rigettava fuori, brillante di un gelido blu. Il solleone si coricava con un malinconico cenno del capo, ogni piovoso giorno di settembre. I visitatori, i marinai perduti, le donne forti, i pirati latitanti; chiunque rimaneva stregato da quello scoglio vanesio, tanto era solito specchiarsi nelle sue acque come una musa. Durante i cambi di stagione, le rocce e i tronchi sembravano levigarsi sino a morire e la fauna si inchinava al sole. Il bagliore dei coralli rafforzava le ossa dei prodi fanciulli, avvezzi alla corsa e alla febbre da maestrale. Non era mai stata tanto bella, l’isola d’Elba.
Spesso era arduo distinguere il suono di cuori estasiati che battevano all’unisono, dalla risacca che non riusciva a dormire. Per un tempo quasi infinito, le acque del territorio, avevano gelosamente custodito un relitto che concentrava in sé la forza madre che muoveva l’universo. Si trattava di un occhio umano incastonato all’interno di una grossa sfera di ferro, probabilmente appartenente in origine alla nobile famiglia dei “Miracolati”.
Essi avevano vissuto sull’isola per qualche generazione, per poi andare via lontano, straziati dalla morte del loro figlio minore Damiano, di soli tre anni.
In ogni modo la famiglia cercò di trovare il prezioso occhio di ferro, da loro custodito in un armadio di legno pregiato, nascosto con cura.
La credenza popolare è convinta sia stata colpa del mare, durante una notte di tempesta, ad averlo inghiottito. Per secoli, innumerevoli civiltà si avventurarono alla ricerca di questo dono sacro e profano, la cui stregoneria permetteva, a chi lo avrebbe ingerito, il potere di dominare il mondo, orientandosi tra bene e male, decidendo per la propria vita e per quella degli altri. Nel momento in cui l’occhio sarebbe stato strappato al proprietario, tutti i desideri che sino ad allora aveva concesso, sarebbero morti assieme a lui.
Un tetro patto di rispetto reciproco.
Con il tempo si smise di parlare dell'oggetto magico così insistentemente, ogni tanto qualche farfuglio nelle piazze o nei colli abitati ma nulla più.
L’isola d’Elba, oltre che per la sua persuasiva maestosità, era acclamata fin dalle più lontane popolazioni, per le creature che ospitava, ma una in particolare si elevava al di sopra delle altre, Violante.
Violante era una delle creature più forti esistenti.
Un movimento con la lingua era capace di far tremare la terra, inabissare le civiltà degli uomini, distruggere e far rifiorire la flora degli emisferi, redimere le bestie selvagge dall’esilio, rimpicciolire la luna e tramutarla in un gioiello bianco e polveroso. Perciò le bastò un tempo minimo per trovare la pietra dei desideri, così per caso, mentre si addentrava nella schiuma dei porti. La riconobbe subito, la “pietra dei desideri” di cui parlava il popolo da anni.
Ma cosa avrebbe potuto volere se aveva già tutto? Se già deteneva la forza di un esercito e la sacralità di una profeta? Forse in questi pensieri giaceva la risposta, il desiderio di qualcuno la cui attenzione l’avrebbe resa ancor più grande, qualcuno per cui avrebbe concesso e accettato la morta sua stessa: un figlio. Era decisa, voleva concepirlo e farlo crescere in sé come un tornado, e sognava di sentirlo guizzare dentro come un cuore pulsante nel fondo dell’oceano. Sapeva che l’avrebbe scardinata, che il suo respiro le avrebbe separato e poi guastato gli organi scavando tra le fenditure della carne, nutrendosi del corpo suo, rubandolo persino a lei stessa; eppure Violante, pur d’averlo, questo e ancor di più avrebbe accettato come santa martire dei racconti, questo e ancor di più avrebbe sacrificato. Questo lei voleva, dopotutto: prendere un pezzo di sé e sistemarlo fuori. Bello, puro, generoso. Da suo figlio avrebbe tratto il più antico elisir d’amore e di forza, lei lo sapeva; egli l’avrebbe resa coraggiosa, l’avrebbe trasformata per sempre, più amara e più vera, l’avrebbe marchiata di rosea crudele fantasia.
Violante ingoiò l’occhio, chiuse gli occhi e si concentrò sulla vita.
Dopo non troppi giorni di pioggia, ella prese in braccio Osea per la prima volta. Il legame che condividevano somigliava al lieto fine di una novella, preciso, soave. Lei era lui, come due argini lasciavano che l’acqua della vita scorresse tra loro, come due poeti in tempo di guerra, loro mantenevano viva la grazia di questa terra, senza la quale sarebbe sfiorita. Le creature donne che abitavano l’isola erano le sole dotate di così energici poteri, una delle tante era Fortuna, la quale rappresenta un tassello fondamentale per la composizione di questa storia. Fortuna abitava l’isola da pochi anni, aveva due occhi intelligenti e scuri e odorava di pioggia e alberi, la sua pelle rosa rendeva l’espressione che portava meno dura, ingentiliva i suoi tratti morbidi e genuini. Di rado si allontanava dalla sua zona (il paese di Capoliveri) per visitarne di diversi, considerando la sua ambigua riservatezza.
La prima vota che li vide, Violante insegnava a Osea a parlare con il mare.
Notò da lontano che sembravano uguali, due specchi dai colori opposti, graziosi e terrificanti, due bellezze spettrali. Fortuna impiegò poco tempo a innamorarsi della madre del bambino, a studiarne gli spostamenti, le abitudini e il timbro pacato della voce, da lontano. Desiderava che quella voce desse lei dei comandi, che le insegnasse e la dirigesse. Ne era rimasta incantata come davanti alla stagione che cambia, si sentì protagonista di un sortilegio di passione, i capelli corvini come il figlio, gli occhi trasparenti, che commozione! “Mi piacerebbe tanto crescere tuo figlio con te, starvi affianco e amarvi con tutta me stessa, io sarò vostra e voi miei.”
Questo è ciò Fortuna ammise con estremo coraggio, dopo due interi anni di attesa e desiderio. Violante reagì con una smorfia ingenua e indispettita.
Di seguito i pensieri che attraversarono la sua testa furba e solitaria.
Non se ne parla. Non esiste creatura al mondo capace di interferire tra me e la mia anima viva, non c’è spazio per nessuno, l’universo che ho costruito è calibrato per contenere me e lui solamente, il mondo fuori non merita di vederci. Vorrei fossimo due peccatori in esilio, condannati all’isolamento, tu mi basti figlio mio, mi basterai sempre. Nessuno al mondo potrà toccarmi come lo permetto a mio figlio, non voglio sentire addosso pelle estranea alla sua, voglio solo le sue mani tra i capelli al mattino, la bocca piccola che mi bacia con passione, la voce che squilla nel buio.
Questa donna non c’entra niente con noi. I pensieri si trasformarono tempestivamente in parole. Violante declinò l’offerta a questo modo, scorbutico e diretto, senza empatia o riguardo; invitando inoltre la donna a stare lontana da lei e dal figlio, fino alla fine dei tempi. Fortuna si sentì tradita da un amore che nemmeno aveva conosciuto, come se il tuo stesso corpo si spaccasse a metà, una parte che inveiva contro l’altra.
Furono sufficienti pochi istanti affinché lo sconforto lasciasse posto alla rabbia, alla velenosa furia di una Dea. Se le era stato proibito di occuparsi di entrambi, a costo di scatenare una guerra, avrebbe rapito il fanciullo e lo avrebbe cresciuto con l’amore che sarebbe spettato a entrambi, se Violante avesse accettato l’offerta di quel cuore sincero.
I giorni seguenti passarono quieti prima della tempesta, Osea cresceva forte e scaltro, proprio di un’acuta brillantezza. Fortuna lo studiava da lontano, in silenzio, nel modo malato e voglioso con cui si guardano le cose prima di rubarle. Una notte di marzo, mentre Osea dormiva nel suo letto basso e stretto, Fortuna lo avvolse tra le sue braccia robuste, lo sistemò dentro una stoffa scura. Il bambino cominciò a strillare, Fortuna provò a tappare quella piccola bocca bagnata di pianto per quanto possibile. Violante lo sentì, si alzò di scatto, ma Fortuna non c’era già più, la sua sagoma sgraziata scomparve nella foresta buia, in un grido di vittoria. Lasciando Violante intrappolata nello spavento.
Le fu squarciato il ventre e fu rubato l’occhio argentato, Fortuna come faceva a sapere dell’occhio e del desiderio di Violante? Una qualche stregoneria? Ciò rimase un mistero per sempre. Fortuna credeva che tramite l’occhio avrebbe potuto far evaporare la Madre? L’unico a pagare il sangue della lotta fu Osea, figlio di un desiderio oramai spento, dunque morto. Non bastarono le stelle a maledire la notte, non furono sufficienti le grida e le unghie che scavavano la terra, non bastò il tentativo di medicarsi la pancia come meglio poteva, poiché il ferro, mentre veniva sradicato dal basso verso l’alto come una lunga radice, le graffiò le pareti dello stomaco come ruggine che si sbriciola su fogli immacolati, aggrapparsi alla vita fu per Violante impossibile.
Cercò di concentrarsi sul bambino perfetto che aveva creato, che aveva per quel poco cresciuto lei sola, tutto quel sentimento le chiuse la gola, paralizzata dell’estasi e dalle dolci memorie che conservava gelosamente di lui, smise di gridare e cadde stremata come pesante foglia da un ramo.
Riecheggiarono in lei tutte le conversazioni infantili, le piccole gambe leste del figlio, i denti minuscoli, il profilo smorfioso, la voce gracile, i baci d’amore.
I ricordi si facevano sempre più nitidi, non le sembrava di morire, bensì di venire al mondo ancora e ancora e ancora. “Osea, tu sei mio! Sei figlio mio, quest’isola perderebbe la sua più grande ricchezza.” In quel momento si rese conto che sarebbe stata disposta a rinunciare a ogni potere, a piegarsi alla volontà del cielo come mai era accaduto, a strisciare sotto la sabbia bagnata per millenni, strapparsi gli arti, accecarsi le iridi, solo per poterlo sentire un’ultima volta, solo per leggere il tenero labiale di un così docile infante: ”Madre.”
Come parve amara la vita a Violante in quel momento! Quale peggior dolore avrebbe potuto gareggiare con il suo? Così autentico e giovane e fedele? Lei, lei sola era degna di quel piccolo ammasso di carne bianca, le braccia sue sole avrebbero potuto consolargli il pianto di cento notti, al mondo viveva un unico seno capace di nutrirlo a dovere, ed era il suo.
Come le piaceva sentirselo attaccato, lasciarsi svuotare come una pozzanghera dal sole, e dopodiché stringerlo forte, gradevolmente sazio e pronto al sonno. Fortuna non era degna; era beata. Era la donna più beata dell’universo, il privilegio che le era toccato, di avergli anche solo sfiorato i capelli neri con il gomito, a quel bambino prodigioso, mentre lo portava altrove sotto le sue vesti, a Violante era stato portato via. Dannata quest’isola malefica e chi la abita. Continuava a ripeterselo in testa come una frase magica, capace di farla scomparire, di farla implodere su se stessa, per fuggire dal quel male lancinante e profondo.
Il sangue continuava funesto a sgorgare dalla ferita aperta, lacrime salate e sangue amaro iniziarono a mescolarsi, dando vita al Laghetto delle Conche, situato nel piccolo paese di Rio, il lago dall’acqua rossa e sinistra. Si narra che il suo corpo giaccia ancora in fondo a quel lago, i lunghi capelli galleggianti indirizzati verso l’alto, che quella grande pozza sia la testimonianza dell’atavico dolore materno, la valle attorno protegge la sua anima come perla in una conchiglia, la notte si sente una voce incomprensibile che piange e si strugge, c’è chi giura di esser riuscito a decifrare un nome, Osea.
Margherita Sardi
Istituto Comprensivo Raffaello Foresi, Portoferraio